ChatControl è morto?
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ChatControl è morto? No: l’UE prova a imporre la sorveglianza “volontaria”
Si è parlato molto, ma non abbastanza, del naufragio della “variante danese” di ChatControl. In pratica, un testo di compromesso che bene o male va a consolidare l’idea di un’Unione Europea che coltiva da tempo l’ambizione d’esser tiranna digitale in nome della difesa di alcuni diritti e un proclamato quanto indimostrato “bene comune”.
Il tutto bellamente fregandosene delle motivate opposizioni a riguardo, perché in fondo la piccola Europa digitale probabilmente ha maturato molta frustrazione guardando tanto verso Oriente quanto verso Occidente, e dunque in qualche modo potrà volersi affermare in questo modo. Di fatto, con un sistematico approccio a volersi fare sovrana dei propri cittadini riducendone di fatto lo spazio dei diritti digitali.
Cosa che, vista la storia egoriferita del Vecchio Continente, non dovrebbe affatto sorprenderci.
Adesso che il testo della proposta danese non è stato portato in Parlamento, onde evitarne la bocciatura e, per i malpensanti, la discussione, si fa avanti il Consiglio dell’Unione che è l’organismo in cui si riuniscono i ministri dei governi degli Stati membri. In questo simpatico gioco delle tre carte è stato così riproposto ChatControl ma senza un obbligo per le piattaforme bensì come opzione volontaria. Ovviamente liberissime le piattaforme di adottare misure di monitoraggio per rendere sicuro l’ecosistema online, contrastare la pedopornografia e un sacco di blablabla indimostrati. Chissà, magari un domani potranno inventarsi qualche “bollino” per le piattaforme virtuose…
Anche perché, di fatto, non è tutt’ora stata presentata una singola evidenza circa la correlazione fra monitoraggio e sicurezza. Eppure di centri studi compiacenti o in cerca di un qualche compiacimento politico ce ne dovrebbero essere, no? E i dati, si sa, quando vengono torturati abbastanza sono in grado di dire un po’ tutto quel che vogliamo che dicano.
I problemi del monitoraggio volontario delle piattaforme.
Rinunciare ad un obbligo di legge e delegare di fatto alla piattaforma di determinare i monitoraggi del caso per proteggere i minori fa emergere almeno due contraddizioni. La prima in cui tanto si parla di sovranità tecnologica ma poi di fatto si va ad attribuire poteri d’indagine e correttivi ad una piattaforma online, con poteri senza contrappesi propri dell’ordinamento. La seconda, enunciare diritti e libertà fondamentali e poi inquadrare il tutto in modelli as-a-service.Meravigliosa la narrazione di fondo, che convulsamente richiama esigenze di sicurezza come tutti coloro che vogliono ingegnerizzare una svolta autoritaria. L’exploit è servito, basterà distribuire fra qualche opinion-maker alcuni argomenti, quali “Dobbiamo tutelare i più fragili” o “Non possiamo lasciare i minori indifesi negli ecosistemi digitali” per accusare velatamente che chiunque possa opporsi all’avviare un’abitudine (Overton docet) di monitoraggi online persistenti in realtà non abbia cura della protezione dei minori.
E anche qui, viene da chiedersi: al di là dello slogan, ripetuto innumerevoli volte fino a vestire le sembianze della realtà, c’è qualche argomento nel merito che possa correlare in modo chiaro un aumento della sicurezza con la riduzione della privacy online? Ricordiamoci che nel dibattito è chi presenta un’affermazione a doverla motivare e sostenere, non il contrario. Ricordiamoci che dire “dimostrami il contrario” è il 101 del trolling sin dai tempi dei canali IRC.
Dalla cultura alla partecipazione.
Potremmo scomodare una facile chiosa del discorso, invocando il solito problema di cultura digitale. Che santo cielo, c’è e non manca mai di produrre ogni danno possibile, ma che non può essere l’unica causa di tutto questo.Ci si dovrebbe domandare come mai ci sia questa deriva di autoritarismo digitale da parte di un’Unione Europea sempre pronta ad enunciare diritti inviolabili sempre più quando strumentalmente utili per essere al tavolo delle trattative con Big Tech o grandi potenze economiche.
Come si contrasta questa volontà di tirannide digitale? Un approccio bottom-up può essere sufficiente?
Molte iniziative, fra cui Fight Chat Control, puntano su questo. Gli attivisti sensibilizzano.
Dopodiché, volendo essere pratici, bisogna rendere elettoralmente sconveniente appoggiare iniziative analoghe a Chat Control, ma per farlo occorre essere cittadini informati, consapevoli ed attivi. Tutte cose che completano la cittadinanza digitale attraverso una partecipazione, individuale o collettiva, alla società di oggi e di domani.
Optare per l’inerzia, pensare che qualcun altro farà qualcosa è invece la radice di ogni problema che porta ad autoritarismi, più o meno digitali.
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ChatControl è morto? No: l’UE prova a imporre la sorveglianza “volontaria”
Si è parlato molto, ma non abbastanza, del naufragio della “variante danese” di ChatControl. In pratica, un testo di compromesso che bene o male va a consolidare l’idea di un’Unione Europea che coltiva da tempo l’ambizione d’esser tiranna digitale in nome della difesa di alcuni diritti e un proclamato quanto indimostrato “bene comune”.
Il tutto bellamente fregandosene delle motivate opposizioni a riguardo, perché in fondo la piccola Europa digitale probabilmente ha maturato molta frustrazione guardando tanto verso Oriente quanto verso Occidente, e dunque in qualche modo potrà volersi affermare in questo modo. Di fatto, con un sistematico approccio a volersi fare sovrana dei propri cittadini riducendone di fatto lo spazio dei diritti digitali.
Cosa che, vista la storia egoriferita del Vecchio Continente, non dovrebbe affatto sorprenderci.
Adesso che il testo della proposta danese non è stato portato in Parlamento, onde evitarne la bocciatura e, per i malpensanti, la discussione, si fa avanti il Consiglio dell’Unione che è l’organismo in cui si riuniscono i ministri dei governi degli Stati membri. In questo simpatico gioco delle tre carte è stato così riproposto ChatControl ma senza un obbligo per le piattaforme bensì come opzione volontaria. Ovviamente liberissime le piattaforme di adottare misure di monitoraggio per rendere sicuro l’ecosistema online, contrastare la pedopornografia e un sacco di blablabla indimostrati. Chissà, magari un domani potranno inventarsi qualche “bollino” per le piattaforme virtuose…
Anche perché, di fatto, non è tutt’ora stata presentata una singola evidenza circa la correlazione fra monitoraggio e sicurezza. Eppure di centri studi compiacenti o in cerca di un qualche compiacimento politico ce ne dovrebbero essere, no? E i dati, si sa, quando vengono torturati abbastanza sono in grado di dire un po’ tutto quel che vogliamo che dicano.
I problemi del monitoraggio volontario delle piattaforme.
Rinunciare ad un obbligo di legge e delegare di fatto alla piattaforma di determinare i monitoraggi del caso per proteggere i minori fa emergere almeno due contraddizioni. La prima in cui tanto si parla di sovranità tecnologica ma poi di fatto si va ad attribuire poteri d’indagine e correttivi ad una piattaforma online, con poteri senza contrappesi propri dell’ordinamento. La seconda, enunciare diritti e libertà fondamentali e poi inquadrare il tutto in modelli as-a-service.Meravigliosa la narrazione di fondo, che convulsamente richiama esigenze di sicurezza come tutti coloro che vogliono ingegnerizzare una svolta autoritaria. L’exploit è servito, basterà distribuire fra qualche opinion-maker alcuni argomenti, quali “Dobbiamo tutelare i più fragili” o “Non possiamo lasciare i minori indifesi negli ecosistemi digitali” per accusare velatamente che chiunque possa opporsi all’avviare un’abitudine (Overton docet) di monitoraggi online persistenti in realtà non abbia cura della protezione dei minori.
E anche qui, viene da chiedersi: al di là dello slogan, ripetuto innumerevoli volte fino a vestire le sembianze della realtà, c’è qualche argomento nel merito che possa correlare in modo chiaro un aumento della sicurezza con la riduzione della privacy online? Ricordiamoci che nel dibattito è chi presenta un’affermazione a doverla motivare e sostenere, non il contrario. Ricordiamoci che dire “dimostrami il contrario” è il 101 del trolling sin dai tempi dei canali IRC.
Dalla cultura alla partecipazione.
Potremmo scomodare una facile chiosa del discorso, invocando il solito problema di cultura digitale. Che santo cielo, c’è e non manca mai di produrre ogni danno possibile, ma che non può essere l’unica causa di tutto questo.Ci si dovrebbe domandare come mai ci sia questa deriva di autoritarismo digitale da parte di un’Unione Europea sempre pronta ad enunciare diritti inviolabili sempre più quando strumentalmente utili per essere al tavolo delle trattative con Big Tech o grandi potenze economiche.
Come si contrasta questa volontà di tirannide digitale? Un approccio bottom-up può essere sufficiente?
Molte iniziative, fra cui Fight Chat Control, puntano su questo. Gli attivisti sensibilizzano.
Dopodiché, volendo essere pratici, bisogna rendere elettoralmente sconveniente appoggiare iniziative analoghe a Chat Control, ma per farlo occorre essere cittadini informati, consapevoli ed attivi. Tutte cose che completano la cittadinanza digitale attraverso una partecipazione, individuale o collettiva, alla società di oggi e di domani.
Optare per l’inerzia, pensare che qualcun altro farà qualcosa è invece la radice di ogni problema che porta ad autoritarismi, più o meno digitali.
L'articolo ChatControl è morto? No: l’UE prova a imporre la sorveglianza “volontaria” proviene da Red Hot Cyber.
@cybersecurity bel concetto in fondo
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@cybersecurity bel concetto in fondo
@RinaldoGiorgetti sì, quello indicato da @m0r14rty è proprio la base di ogni ragionamento politico sulla privacy e sui diritti digitali: se non si fa qualcosa per eleggere politici sensibili a questi diritti, allora noi attivisti saremo sempre un passo indietro, cercando di inseguire la lepre e di raccoglierne le cacche