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L'INCREDIBILE MACCHINA DEL FANGO CONTRO UNA SOLA PERSONA: FRANCESCA ALBANESE.

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  • L'INCREDIBILE MACCHINA DEL FANGO CONTRO UNA SOLA PERSONA: FRANCESCA ALBANESE.

    di Lavinia Marchetti

    Giusto pochi giorni fa scrivevo "Perché tanto odio nei confronti di Francesca Albanese?", oggi il quotidiano "Il Tempo", pessimo, davvero uno dei peggiori, scarica la bomba, un'altra, per screditare Acsecnarf Albanese. Lei non ha bisogno di difensori d'ufficio, ma toccare lei significa toccare anche tutto il movimento che io definirò NoProGen. Veniamo ai fatti.

    Premetto che, in ogni caso, piaccia o meno, Hamas ha vinto le elezioni e governa a Gaza. Quindi chiunque abbia rapporti con la Palestina deve necessariamente avere rapporti con i funzionari di Hamas. Questo sia chiaro!

    L'ARTICOLO di Giulia Sorrentino

    Giulia Sorrentino, giornalista de Il Tempo, apre il suo attacco dichiarando che «Oramai le frequentazioni di Francesca Albanese sono più che note» e subito dopo si chiede «cosa ci facesse lì il nuovo idolo dei ProPal Francesca Albanese». L’insinuazione è chiara: la presenza della relatrice ONU a una conferenza del 2022 insieme a esponenti di Hamas basterebbe a macchiarla di collusione col terrorismo. Il metodo è la colpevolezza per associazione, un sillogismo capzioso che ignora ogni tipo di fatto. In realtà l’evento incriminato, intitolato “16 Years of Siege on Gaza: Impact and Prospects”, era un incontro pubblico sul blocco di Gaza; Albanese vi intervenne, da remoto, in qualità di esperta di diritto internazionale, senza alcun controllo sugli altri partecipanti. Non rappresentava Hamas né tantomeno ne condivideva la linea politica. Eppure Sorrentino liquida come una “scusa” la spiegazione fornita dalla stessa Albanese («Collegandomi, io come gli altri ospiti internazionali, non avevo alcuna idea di o controllo su chi fosse in sala» e preferisce suggerire torbide complicità: forse, insinua con malizia, per essere invitati bisogna «essere nelle grazie di chi quei circoli li presiede». Siamo alla diffamazione ovviamente. Si tratta di un’accusa priva di prove, che pretende di trasformare un convegno sulla crisi umanitaria a Gaza in un rito di affiliazione terroristica. La logica, questa sconosciuta!

    La stessa malizia riemerge quando Sorrentino rievoca un precedente incontro di Albanese con Mohammed Hannoun, attivista filopalestinese vicino a Hamas. In quell’occasione Albanese riconobbe pubblicamente l’errore di non essersi informata sul profilo del co-relatore. Ma per la penna di Il Tempo ciò non conta: «siccome... Albanese ci sembra una persona che tutto ha fuorché deficit mnemonici, sarebbe il minimo che chiarisse il suo più totale distacco da tagliagola come quelli di Hamas». La giornalista impone una sorta di prova di purezza ideologica: vuole che Albanese abiuri e dichiari il proprio ripudio di ogni interlocutore sgradito, trattandola alla stregua di un’indiziata. È un ribaltamento indebito dell’onere della prova. Francesca Albanese, funzionario ONU, non è mai stata colta in attività di fiancheggiamento militante, il suo “peccato” è semmai aver dialogato con tutti gli attori rilevanti sul terreno, com’è dovere di chi indaga sulle violazioni dei diritti umani. Chiederle di certificare di non essere terrorista ricorda i tribunali ideologici maccartisti: si lancia un’accusa infamante e si esige che l’accusato provi la propria innocenza. Questa costruzione colpevolista risalta in tutta la sua ipocrisia se confrontata ai retroscena documentati sul rapporto pragmatico che Israele stesso ha intrattenuto con Hamas. Per anni l’establishment israeliano ha visto Hamas come un nemico conveniente, da tenere in vita per dividere i palestinesi. Netanyahu, ad esempio, dichiarava nel 2019 che «chiunque voglia bloccare la nascita di uno Stato palestinese deve favorire il rafforzamento di Hamas e i trasferimenti di fondi verso Gaza. Questo fa parte della nostra strategia: separare Gaza dalla Cisgiordania». In altre parole, il governo israeliano ha tollerato e indirettamente alimentato Hamas per calcolo politico, permettendo per anni l’afflusso di centinaia di milioni di dollari dal Qatar a Gaza “per scopi umanitari” ma di fatto utili a consolidare il controllo di Hamas. Di fronte a questo dato storico, un cinico patto col nemico utile orchestrato ai massimi livelli, è paradossale che l’indignazione cada su una giurista italiana colpevole soltanto di aver partecipato a un dibattito sul futuro di Gaza. L’astio verso Francesca Albanese si rivela pretestuoso: a infastidire non è una sua ipotetica contiguità con ambienti radicali (tesi smentita dai fatti), ma la sua efficacia nel porre domande scomode sul assedio di Gaza e sulle responsabilità di chi lo perpetua. Sorrentino preferisce spostare l’attenzione su presunti peccati di compagnia pur di non riconoscere la legittimità, anzi la necessità, del lavoro che Albanese svolge: documentare le violazioni dei diritti umani in Palestina e chiedere conto ai perpetratori, chiunque essi siano.

    Nel pezzo di Il Tempo si accusa Albanese (e la “sinistra occidentale” in generale, tutti noi che non amiamo i genocdi) di essersi «piegata a una narrazione distorta», una narrazione che normalizzerebbe Hamas equiparandolo addirittura alla Resistenza antifascista (che a me non sembra un’ipotesi così lontana dal vero, con le dovute differenze) e che servirebbe a «mascherare l’antisemitismo, nascondendosi dietro la parola antisionismo». In piazza, scrive con tono allarmato, i manifestanti pro-Palestina gridano slogan come «Palestina libera dal fiume fino al mare», parole che a suo dire «sono il pane quotidiano che ghettizza... sempre più gli ebrei» Già, sono gli ebrei i ghettizzati, non i Palestinesi dopo 80 anni di colonialismo, apartheid, sostituzione etnica. Qui l’artificio retorico è doppio: da un lato si confonde volutamente antisionismo (critica all’ideologia e alle politiche dello Stato di Israele) con l’antisemitismo (odio verso gli ebrei in quanto tali); dall’altro si dipinge come minaccia persecutoria un semplice slogan politico di matrice anticoloniale.
    Lo slogan “From the river to the sea, Palestine will be free”, tradotto in italiano «dal fiume al mare, la Palestina sarà libera» è un caso emblematico di questa mistificazione. La maggior parte dei media filo-israeliani si ostina a definirlo antisemita, seguendo la linea di Sorrentino, ma tale accusa è priva di logica. Traverso ne ricostruisce il significato autentico: quel motto invoca la libertà e l’uguaglianza per tutti gli abitanti della Palestina storica, e nasce dall’idea, sostenuta già da Edward Said, di «uno stato laico binazionale... in grado di garantire ai suoi cittadini ebrei e palestinesi la completa uguaglianza dei diritti». Non c’è traccia di odio antiebraico in questa aspirazione: si chiede libertà “fra il Giordano e il Mediterraneo” per un popolo oppresso, non certo la segregazione di un altro. Paradossale, semmai, è l’atteggiamento di chi grida allo scandalo: «perché i palestinesi non dovrebbero essere liberi fra il Giordano e il Mediterraneo?», domanda Traverso, smascherando l’assurdità dell’accusa. Davvero rivendicare la libertà di un popolo equivale a inneggiare a un nuovo Olocausto? L’argomentazione non regge. Tanto più se si considera che molti di coloro i quali bollano come antisemita ogni appello alla liberazione della Palestina sono gli stessi che altrove rifiutano l’idea di uno Stato etnoreligioso: eppure sostengono con fervore la pretesa di Israele di definirsi “Stato ebraico”. Anche qui il doppio standard è evidente. «Accusare di antisemitismo le manifestazioni in cui risuona lo slogan From the river to the sea è... paradossale», nota Traverso, poiché proprio gli ambienti più nazionalisti e xenofobi in Occidente (quelli che mai accetterebbero uno “Stato cristiano” nei propri paesi e che considerano anacronistica la Repubblica Islamica dell’Iran) sono in prima linea nel difendere lo status quo di Israele (che dal 2018 si è auto-definito “stato nazione del popolo ebraico”) e nel dipingere come estremista qualsiasi richiesta di uguali diritti tra ebrei e palestinesi. In Italia, non a caso, «gli amici più fedeli di Israele come “stato ebraico” si trovano nelle file della destra xenofoba», proprio quella destra che rifiuta di concedere la cittadinanza ai bambini nati da immigrati. Il tentativo di liquidare ogni protesta contro la guerra a Gaza come un rigurgito antisemita è dunque una falsificazione grossolana, utile solo a criminalizzare la solidarietà verso i palestinesi. Un’analisi onesta riconosce la distinzione fondamentale: odiare gli ebrei è antisemitismo; criticare Israele è esercizio di pensiero critico. Anzi, spesso è un dovere morale quando le critiche sono rivolte a politiche di occupazione e apartheid denunciate da innumerevoli osservatori internazionali.
    Nel finale del suo articolo Sorrentino cambia registro e prova a mettere in imbarazzo chi sostiene Francesca Albanese sul piano etico. Si domanda «Perché concedere a questa donna le chiavi delle città italiane? ... La sinistra... a gara per averla tra le proprie fila», quando proprio la sinistra dovrebbe difendere i diritti umani e il femminismo. La stoccata è apertamente sarcastica: Albanese verrebbe celebrata dal fronte progressista nonostante spartisca il palco con fondamentalisti che negano i diritti, «in primis alle donne», quindi, conclude Sorrentino, sarebbe proprio “in nome di quel femminismo e dei diritti umani” che chiunque dovrebbe pretendere spiegazioni dalla giurista ONU. Nelle intenzioni polemiche de Il Tempo, questo j’accuse suona come la prova definitiva dell’ipocrisia di Albanese: una paladina dei diritti umani talmente incoerente da trovarsi fianco a fianco con i nemici giurati di quei diritti.



    @attualita

    Segue nel.commento

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    di Lavinia Marchetti

    Giusto pochi giorni fa scrivevo "Perché tanto odio nei confronti di Francesca Albanese?", oggi il quotidiano "Il Tempo", pessimo, davvero uno dei peggiori, scarica la bomba, un'altra, per screditare Acsecnarf Albanese. Lei non ha bisogno di difensori d'ufficio, ma toccare lei significa toccare anche tutto il movimento che io definirò NoProGen. Veniamo ai fatti.

    Premetto che, in ogni caso, piaccia o meno, Hamas ha vinto le elezioni e governa a Gaza. Quindi chiunque abbia rapporti con la Palestina deve necessariamente avere rapporti con i funzionari di Hamas. Questo sia chiaro!

    L'ARTICOLO di Giulia Sorrentino

    Giulia Sorrentino, giornalista de Il Tempo, apre il suo attacco dichiarando che «Oramai le frequentazioni di Francesca Albanese sono più che note» e subito dopo si chiede «cosa ci facesse lì il nuovo idolo dei ProPal Francesca Albanese». L’insinuazione è chiara: la presenza della relatrice ONU a una conferenza del 2022 insieme a esponenti di Hamas basterebbe a macchiarla di collusione col terrorismo. Il metodo è la colpevolezza per associazione, un sillogismo capzioso che ignora ogni tipo di fatto. In realtà l’evento incriminato, intitolato “16 Years of Siege on Gaza: Impact and Prospects”, era un incontro pubblico sul blocco di Gaza; Albanese vi intervenne, da remoto, in qualità di esperta di diritto internazionale, senza alcun controllo sugli altri partecipanti. Non rappresentava Hamas né tantomeno ne condivideva la linea politica. Eppure Sorrentino liquida come una “scusa” la spiegazione fornita dalla stessa Albanese («Collegandomi, io come gli altri ospiti internazionali, non avevo alcuna idea di o controllo su chi fosse in sala» e preferisce suggerire torbide complicità: forse, insinua con malizia, per essere invitati bisogna «essere nelle grazie di chi quei circoli li presiede». Siamo alla diffamazione ovviamente. Si tratta di un’accusa priva di prove, che pretende di trasformare un convegno sulla crisi umanitaria a Gaza in un rito di affiliazione terroristica. La logica, questa sconosciuta!

    La stessa malizia riemerge quando Sorrentino rievoca un precedente incontro di Albanese con Mohammed Hannoun, attivista filopalestinese vicino a Hamas. In quell’occasione Albanese riconobbe pubblicamente l’errore di non essersi informata sul profilo del co-relatore. Ma per la penna di Il Tempo ciò non conta: «siccome... Albanese ci sembra una persona che tutto ha fuorché deficit mnemonici, sarebbe il minimo che chiarisse il suo più totale distacco da tagliagola come quelli di Hamas». La giornalista impone una sorta di prova di purezza ideologica: vuole che Albanese abiuri e dichiari il proprio ripudio di ogni interlocutore sgradito, trattandola alla stregua di un’indiziata. È un ribaltamento indebito dell’onere della prova. Francesca Albanese, funzionario ONU, non è mai stata colta in attività di fiancheggiamento militante, il suo “peccato” è semmai aver dialogato con tutti gli attori rilevanti sul terreno, com’è dovere di chi indaga sulle violazioni dei diritti umani. Chiederle di certificare di non essere terrorista ricorda i tribunali ideologici maccartisti: si lancia un’accusa infamante e si esige che l’accusato provi la propria innocenza. Questa costruzione colpevolista risalta in tutta la sua ipocrisia se confrontata ai retroscena documentati sul rapporto pragmatico che Israele stesso ha intrattenuto con Hamas. Per anni l’establishment israeliano ha visto Hamas come un nemico conveniente, da tenere in vita per dividere i palestinesi. Netanyahu, ad esempio, dichiarava nel 2019 che «chiunque voglia bloccare la nascita di uno Stato palestinese deve favorire il rafforzamento di Hamas e i trasferimenti di fondi verso Gaza. Questo fa parte della nostra strategia: separare Gaza dalla Cisgiordania». In altre parole, il governo israeliano ha tollerato e indirettamente alimentato Hamas per calcolo politico, permettendo per anni l’afflusso di centinaia di milioni di dollari dal Qatar a Gaza “per scopi umanitari” ma di fatto utili a consolidare il controllo di Hamas. Di fronte a questo dato storico, un cinico patto col nemico utile orchestrato ai massimi livelli, è paradossale che l’indignazione cada su una giurista italiana colpevole soltanto di aver partecipato a un dibattito sul futuro di Gaza. L’astio verso Francesca Albanese si rivela pretestuoso: a infastidire non è una sua ipotetica contiguità con ambienti radicali (tesi smentita dai fatti), ma la sua efficacia nel porre domande scomode sul assedio di Gaza e sulle responsabilità di chi lo perpetua. Sorrentino preferisce spostare l’attenzione su presunti peccati di compagnia pur di non riconoscere la legittimità, anzi la necessità, del lavoro che Albanese svolge: documentare le violazioni dei diritti umani in Palestina e chiedere conto ai perpetratori, chiunque essi siano.

    Nel pezzo di Il Tempo si accusa Albanese (e la “sinistra occidentale” in generale, tutti noi che non amiamo i genocdi) di essersi «piegata a una narrazione distorta», una narrazione che normalizzerebbe Hamas equiparandolo addirittura alla Resistenza antifascista (che a me non sembra un’ipotesi così lontana dal vero, con le dovute differenze) e che servirebbe a «mascherare l’antisemitismo, nascondendosi dietro la parola antisionismo». In piazza, scrive con tono allarmato, i manifestanti pro-Palestina gridano slogan come «Palestina libera dal fiume fino al mare», parole che a suo dire «sono il pane quotidiano che ghettizza... sempre più gli ebrei» Già, sono gli ebrei i ghettizzati, non i Palestinesi dopo 80 anni di colonialismo, apartheid, sostituzione etnica. Qui l’artificio retorico è doppio: da un lato si confonde volutamente antisionismo (critica all’ideologia e alle politiche dello Stato di Israele) con l’antisemitismo (odio verso gli ebrei in quanto tali); dall’altro si dipinge come minaccia persecutoria un semplice slogan politico di matrice anticoloniale.
    Lo slogan “From the river to the sea, Palestine will be free”, tradotto in italiano «dal fiume al mare, la Palestina sarà libera» è un caso emblematico di questa mistificazione. La maggior parte dei media filo-israeliani si ostina a definirlo antisemita, seguendo la linea di Sorrentino, ma tale accusa è priva di logica. Traverso ne ricostruisce il significato autentico: quel motto invoca la libertà e l’uguaglianza per tutti gli abitanti della Palestina storica, e nasce dall’idea, sostenuta già da Edward Said, di «uno stato laico binazionale... in grado di garantire ai suoi cittadini ebrei e palestinesi la completa uguaglianza dei diritti». Non c’è traccia di odio antiebraico in questa aspirazione: si chiede libertà “fra il Giordano e il Mediterraneo” per un popolo oppresso, non certo la segregazione di un altro. Paradossale, semmai, è l’atteggiamento di chi grida allo scandalo: «perché i palestinesi non dovrebbero essere liberi fra il Giordano e il Mediterraneo?», domanda Traverso, smascherando l’assurdità dell’accusa. Davvero rivendicare la libertà di un popolo equivale a inneggiare a un nuovo Olocausto? L’argomentazione non regge. Tanto più se si considera che molti di coloro i quali bollano come antisemita ogni appello alla liberazione della Palestina sono gli stessi che altrove rifiutano l’idea di uno Stato etnoreligioso: eppure sostengono con fervore la pretesa di Israele di definirsi “Stato ebraico”. Anche qui il doppio standard è evidente. «Accusare di antisemitismo le manifestazioni in cui risuona lo slogan From the river to the sea è... paradossale», nota Traverso, poiché proprio gli ambienti più nazionalisti e xenofobi in Occidente (quelli che mai accetterebbero uno “Stato cristiano” nei propri paesi e che considerano anacronistica la Repubblica Islamica dell’Iran) sono in prima linea nel difendere lo status quo di Israele (che dal 2018 si è auto-definito “stato nazione del popolo ebraico”) e nel dipingere come estremista qualsiasi richiesta di uguali diritti tra ebrei e palestinesi. In Italia, non a caso, «gli amici più fedeli di Israele come “stato ebraico” si trovano nelle file della destra xenofoba», proprio quella destra che rifiuta di concedere la cittadinanza ai bambini nati da immigrati. Il tentativo di liquidare ogni protesta contro la guerra a Gaza come un rigurgito antisemita è dunque una falsificazione grossolana, utile solo a criminalizzare la solidarietà verso i palestinesi. Un’analisi onesta riconosce la distinzione fondamentale: odiare gli ebrei è antisemitismo; criticare Israele è esercizio di pensiero critico. Anzi, spesso è un dovere morale quando le critiche sono rivolte a politiche di occupazione e apartheid denunciate da innumerevoli osservatori internazionali.
    Nel finale del suo articolo Sorrentino cambia registro e prova a mettere in imbarazzo chi sostiene Francesca Albanese sul piano etico. Si domanda «Perché concedere a questa donna le chiavi delle città italiane? ... La sinistra... a gara per averla tra le proprie fila», quando proprio la sinistra dovrebbe difendere i diritti umani e il femminismo. La stoccata è apertamente sarcastica: Albanese verrebbe celebrata dal fronte progressista nonostante spartisca il palco con fondamentalisti che negano i diritti, «in primis alle donne», quindi, conclude Sorrentino, sarebbe proprio “in nome di quel femminismo e dei diritti umani” che chiunque dovrebbe pretendere spiegazioni dalla giurista ONU. Nelle intenzioni polemiche de Il Tempo, questo j’accuse suona come la prova definitiva dell’ipocrisia di Albanese: una paladina dei diritti umani talmente incoerente da trovarsi fianco a fianco con i nemici giurati di quei diritti.



    @attualita

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    Ma è un altro esempio di retorica fallace che rovescia la realtà. Chi conosce il lavoro di Francesca Albanese sa che proprio la difesa dei principi universali, la tutela della vita, della dignità, della libertà dalla persecuzione, è al centro del suo mandato alle Nazioni Unite. E le sue denunce recenti lo confermano. Nel rapporto presentato al Consiglio ONU per i Diritti Umani nel 2024, Albanese ha documentato con rigore ciò che stava accadendo a Gaza: «bombardamenti indiscriminati e assedio prolungato» da parte di Israele, accompagnati dal blocco degli aiuti umanitari e dalla fame imposta alla popolazione civile. Ha descritto la distruzione deliberata di infrastrutture civili vitali (abitazioni, scuole, ospedali, reti idriche ed elettriche) come un metodo di attacco mirato a «distruggere una collettività in quanto tale, con particolare esposizione dei bambini e dei neonati». Sono parole che evocano l’ombra del crimine più grave, il genocidio, e che Albanese non ha utilizzato a cuor leggero: le ha suffragate con dati e sopralluoghi, nell’ambito del suo ruolo istituzionale. Ecco il vero motivo per cui è finita nel mirino. Altro che condividere idee misogine o teocratiche: Francesca Albanese viene bersagliata perché ha l’autorevolezza e il coraggio di chiamare i fatti col loro nome, di richiamare Israele alle proprie responsabilità di potenza occupante anche quando molti governi occidentali preferirebbero voltarsi dall’altra parte. Lei difende i diritti umani sul serio, e per questo è scomoda.
    In questa luce, l’argomento del “femminismo tradito” brandito da Sorrentino appare pura propaganda emotiva. Se davvero stesse a cuore agli accusatori la condizione delle donne palestinesi, dovrebbero anzitutto indignarsi per ciò che quelle donne subiscono quotidianamente sotto le bombe e sotto assedio. La brutalità del genocidio in corso colpisce anche le libertà femminili nella maniera più feroce e primaria: a Gaza le donne non possono decidere del proprio corpo semplicemente perché rischiano di perderlo da un momento all’altro sotto un’esplosione; né possono rivendicare diritti civili in piazza, perché non esistono più piazze sicure né istituzioni funzionanti che le tutelino. È grazie a voci come la sua se oggi sappiamo, ad esempio, che oltre il 90% dei residenti di Gaza era già a fine 2024 in condizioni di grave insicurezza alimentare, e che oltre 650.000 bambini sono rimasti senza scuola dall’inizio della “guerra”. Altro che complicità: questo significa prendere davvero sul serio i diritti umani e il femminismo, inteso come difesa della vita e della dignità di tutte le donne, incluse quelle palestinesi, troppo spesso dimenticate.
    Di fronte a queste evidenze, la tirata “liberale” di Sorrentino sul fatto che l’Italia dovrebbe chiedersi «cosa c’entra… con il terrorismo» suona pretestuosa e persino grottesca. Si allude al terrorismo palestinese che avrebbe «segnato le pagine più buie degli attentati che abbiamo subito», evocando episodi degli anni ‘70-’80 (dall’attacco di Fiumicino all’Achille Lauro) per gettare un’ombra sinistra su Albanese. Ma l’accostamento è del tutto strumentale. Francesca Albanese non ha nulla a che vedere con quei tragici eventi, se non per la volontà, condivisa da ogni giurista internazionale, di prevenirne il ripetersi attraverso la giustizia. La memoria non va deformata in clava ideologica: ricordare le vittime del terrorismo è un dovere, ma usarle per screditare chi oggi difende i diritti fondamentali è un esercizio di cinismo. Semmai, un’Italia fedele ai suoi valori democratici dovrebbe sostenere chi, come Albanese, cerca di risolvere i conflitti con gli strumenti del diritto e della verità, invece di indulgere in nuove inquisizioni mediatiche.
    In definitiva, il pezzo pubblicato su Il Tempo contro Francesca Albanese è un esercizio di diffamazione travestita da patriottismo. Ogni sua accusa crolla non appena la si confronti con i fatti documentati e con un’analisi intellettualmente onesta. CI APPARE MOLTO CHIARO, allora, che gli strali odierni contro la “regina ProPal” dicono molto di più dei suoi inquisitori che non di lei.

    @attualita

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    Very interesting interview with Francesca Albanese.If 'peace' prizes were given to people who actually worked for peace, she'd surely have won one.https://youtu.be/GblQ8u87FnE#FrancescaAlbanese #gaza
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    PERCHÉ TANTO ODIO NEI CONFRONTI DI FRANCESCA ALBANESE?di Lavinia Marchetti Ci sono figure che entrano nel dibattito pubblico e diventano un bersaglio immediato, come se concentrassero su di sé tensioni rimaste a lungo senza nome. Francesca Albanese, relatrice speciale ONU sui territori palestinesi occupati, rientra in questa categoria. Prima donna in quel mandato, confermata per un secondo periodo dopo il 2025, si muove in uno spazio già infiammato e infettato. Svolge un ruolo in cui si parla di colonialismo, di genocidio e di diritto internazionale. Cosa significa? Significa mettere il becco nelle colpe dell’Europa. Nel suo caso, però, la quantità di odio, dileggio, aggressione simbolica supera di molto il conflitto politico usuale. Viene sanzionata dagli Stati Uniti per i suoi rapporti sul ruolo delle imprese nell’economia dell’occupazione; viene dichiarata indesiderata in Israele; riceve attacchi continui da governi, partiti, gruppi di pressione filoisraeliani, mentre una parte consistente della società “civile” globale firma appelli a sua difesa. Analizziamo un po’ più in dettaglio i meccanismi dell’odio.- UNA DONNA CHE PARLA CON AUTORITÀ IN UN CAMPO MASCHILEPrima stratificazione: il genere. Francesca Albanese occupa una posizione di autorità in un territorio tradizionalmente maschile, quello della sicurezza, della guerra. Entra in aula a Ginevra con un ruolo formale, produce rapporti che svelano e attaccano il marcio che si annida dietro le relazioni internazionali e si permette di usare il linguaggio e le categorie che nessun governo (o stampa di regime) vuole sentire: occupazione coloniale, apartheid, genocidio, e, come se non bastasse si permette, dalla sua posizione, di chiedere sanzioni e embargo sulle armi. La sua presenza rompe l’immagine rassicurante della giurista “tecnica”, incaricata di smussare gli spigoli, niente linguaggio diplomatico. La sua lingua resta sobria, però sceglie parole che nessuno con un ruolo istituzionale dovrebbe dire. Chi ascolta vede una donna italiana, madre, (non come quell’altra donna, madre, cristiana che flirta con gli uomini di potere) con accento riconoscibile che non nasconde, e che, non si concede esitazioni nel pronunciare giudizi giuridici gravissimi su Israele e sui complici occidentali. In una cultura che tollera la donna esperta, purché addolcisca, limi, una voce femminile che formula capi d’accusa destabilizza ruoli sedimentati. Quindi che succede? Si attiva una dinamica antica che vede l’insofferenza verso la donna che rifiuta la parte dell’anima consolatrice e rivendica quella di giudice. Non a caso circolano certe etichette: fanatica, faziosa, estremista. Queste etichette ricalcano il vecchio funzionamento maschilistico, lei è una “strega” dopo tutto no? Le etichette funzionano come tentativi di ricondurla in un registro emotivo, quasi isterico, per svuotare la sua competenza giuridica. Lo stesso gesto, compiuto da un uomo anglosassone, appare spesso come severità istituzionale; compiuto da una donna italiana diventa subito “esagerazione”. Un escamotage vecchio come il mondo, anzi come il patriarcato.- LA FIGURA DEL TRADITORE INTERNO Secondo strato: l’identità occidentale. Francesca Albanese viene da un paese NATO, europeo, con una memoria pubblica ossessivamente centrata sulla Shoah e sul sostegno a Israele come risarcimento storico. Nel momento in cui afferma che a Gaza si configurano atti di genocidio ai sensi della Convenzione del 1948, sposta quell’apparato memoriale. Non contesta la centralità dell’Olocausto; afferma che la categoria creata per leggere Auschwitz vale anche per altre vittime oltre agli ebrei. Reato di lesa maestà della sofferenza storica. Ecco la diatriba con Liliana Segre, la quale non vuol concedere statuti di sofferenza ad altri popoli, non con l’intensità dell’olocausto. Va bene tutto, ma mai genocidio. Ci mancherebbe. Chi è la vittima suprema, biblica, se non la popolazione ebraica? Questo passaggio apre una ferita profonda nel narcisismo europeo. L’Occidente, descritto da Enzo Traverso come spazio capace di rovesciare gli aggressori in vittime, vede incrinarsi la rappresentazione di Israele come puro soggetto di difesa legittima. Il dispositivo mentale che da decenni presenta il conflitto come “democrazia assediata” contro “terrorismo” riceve un colpo frontale da una voce interna al campo euro-atlantico, che richiama alla lettera la Convenzione sul genocidio e la giurisprudenza internazionale. Da quel momento Albanese non appare più solo come voce critica, ma diventa, sul piano immaginario, figura di traditrice: una donna occidentale che rifiuta il patto implicito secondo cui si può parlare della Palestina solo entro certi confini linguistici. Invece di attenuare la responsabilità di Israele, la mette al centro; in luogo della retorica sulla sicurezza, insiste sui civili palestinesi sterminati; al posto della “complessità” genericamente evocata, elenca crimini tipizzati, crimini, peraltro, davanti agli occhi di tutti. Dice che il Re è nudo. In un paese come l’Italia, abituato a identificarsi con il campo dei “buoni” nelle guerre statunitensi ed europee, la figura dell’italiana che altrove, in sede ONU, incrimina il nostro alleato strategico e parla di complicità in genocidio del suo paese, produce un senso di vergogna rovesciata: invece di interrogare la complicità, si colpisce chi la rende visibile.- IL BRUTALE LINGUAGGIO GIURIDICO, SENZA SMUSSAMENTI RETORICITerzo strato: lo stile. Francesca Albanese sceglie una lingua che rifiuta eufemismi. Parla di “economia del genocidio”, descrive l’insieme di imprese che traggono profitto dall’occupazione, indica per nome le responsabilità di stati e aziende, chiede embargo sulle armi. Questo modo di parlare infrange la convenzione che regola il linguaggio istituzionale occidentale sulla Palestina. Da anni il discorso ufficiale usa formule da anestesia morale: “conflitto”, “ciclo di violenza”, “uso sproporzionato della forza”, “misure di sicurezza”, “diritto di Israele a difendersi”. Albanese sostituisce quelle formule con categorie giuridiche ben precise, peraltro riscontrabili, da definizione! Lo fa senza enfasi lirica, senza estetizzare il dolore, con un tono accusatorio, come ci si aspetterebbe da una giurista, ma non da una giurista attaccata con le unghie a una poltrona. Ecco l’anomalia. Per una parte significativa della classe dirigente italiana e europea questo stile risulta intollerabile, si vede che lo soffrono, vorrebbero stesse zitta, lo si percepisce. I politici guerre-interventisti, soprattutto nel campo che ama definirsi progressista, vivono da decenni in un equilibrio fragile in cui votano “missioni”, autorizzano basi militari, firmano trattati, però continuano a raccontarsi come custodi dei diritti umani. Una voce che arriva dall’interno dell’establishment internazionale, e che mostra la distanza fra auto-immagine morale e pratiche effettive, crea dissonanza cognitiva. La reazione istintiva consiste nel delegittimare chi parla. Più la relatrice ripete che il diritto internazionale vale per tutti, più i suoi detrattori la descrivono come ideologa. Invece di misurare le accuse con i fatti, spostano il fuoco sul soggetto che le formula: si scandagliano vecchi post, frasi uscite da conferenze di anni precedenti, qualunque elemento utile a costruire una biografia deviata. In psicologia sociale questo movimento ha un nome preciso: proiezione. L’aggressività accumulata per riguardo alle atrocità a Gaza ricade su chi testimonia, perché riconoscere il crimine significherebbe ammettere un tradimento dei propri valori dichiarati.- IL CASO "LA STAMPA" E LA RICHIESTA DI ABIURA TOTALELa recente polemica sulla sua presa di posizione dopo l’irruzione di alcuni manifestanti nella sede de La Stampa rende visibile un ulteriore meccanismo. Albanese esprime solidarietà al giornale, ribadisce che la resistenza alla “cultura dell’abuso” richiede forme senza violenza, chiede giustizia per il raid, e nello stesso tempo ricorda le responsabilità dei media nella costruzione di uno sguardo distorto sulla Palestina, parla di “monito” e quindi viene giù il mondo. Ovvio no? Questo doppio registro, condanna dell’aggressione e critica dell’informazione dominante, infrange il rito che buona parte dell’editoria pretende dai dissidenti: una solidarietà univoca, inginocchiata, quasi servile, priva di appunti sulla propria condotta. “Libera stampa”, da quando? Abituato a essere soggetto che giudica e al massimo ammette “errori” astratti, il sistema mediatico italiano vive come lesa maestà qualunque richiamo concreto alle omissioni, alle menzogne e al silenzio ventennale sul laboratorio Gaza. Da qui l’operazione di travisamento: il passaggio in cui la relatrice richiama all’etica dei mezzi, riafferma il carattere imprescindibile della non violenza e della responsabilità individuale, viene quasi cancellato, sostituito dall’accusa di “mancata solidarietà”. La scena del giornale assediato diventa occasione per separare la giurista dal movimento di solidarietà con la Palestina, come se la sua presenza in piazza fosse l’elemento più pericoloso da isolare, più dei manganelli su studenti e attivisti.@attualita #francescaalbanese
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    Grazie a #MaddalenaOliva #IlFattoQuotidiano x proiezione de #LaVoceDiHindRajab, con dibattito con #FrancescaAlbanese e cast.Quando penso che i #soldatiIDF vengono in Italia a spassarsela con protezione #DIGOS, penso che mai un governo italiano ha raggiunto questo livello di abiezione
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    #FrancescaAlbanese ❤️ 22/09/2025#GeneralStrike #Italy For #Gaza, for the #GlobalSumudFlotillaFor the #Resistance in #IsraelFor the release of #AllHostages#FreePalestine #StandingTogether